Sono stata sempre sempre affascinata dai giardini, e quale stupore fu apprendere che le immagini di fragili strutture di ferro pubblicate sul numero 7 del 1985 della rivista Aut.Trib. 17139 (che girava per casa nostra provocando qualche disappunto familiare) erano i fotogramma di un documentario che nella prima metà degli anni ottanta Gianni Fileccia aveva iniziato a girare nel parco che Niky de Saint Phalle stava costruendo sulle colline toscane, a sud di Grosseto.
Così quando quell’anno tornammo a Capalbio me ne andai in località Garavicchio per vedere il giardino rivelato.
Sopra i filari delle viti le gigantesche ragnatele delle strutture metalliche per il cemento segnalavano il luogo cercato, in cui tutto era però provvisorio e malinconico al modo di un cantiere abbandonato. Ingombro di forme e linee intricate come nei disegni ad inchiostro, potevano sembrare opere già compiute nelle quali si indovinava qualcosa di stupefacente e ardito.
Solo qualche mese dopo entrai in un altro giardino fantastico: Parc Guell a Barcellona.
Anche qui alcune zone del parco di Gaudì erano interdette da cantieri.
Neppure del giardino di Bomarzo avevo potuto evitare la deprimente visione di transenne, mucchi di sabbia e nastri bicolore che proibivano gli accessi ai giganteschi mostri di pietra corrosi da muschi verdi e grigi.
Pensai allora che ogni mirabile giardino era destinato a rimanere nient’altro che allo stato di cantiere: perenne campo di conflitto tra immaginazione e natura.
Dovevo forse rassegarmi a capire che questi luoghi meravigliosi, mai completamente terminati e forse neppure mai veramente iniziati, erano nient’altro che approdi esperidi per argonauti inconcludenti?
Invece nell’estate del 1999, viaggiando in automobile sulla via Cassia poco prima di raggiungere Capalbio Lido, vidi distintamente i colorati bagliori provenienti dalle colline di Garavicchio; raggianti nel cielo terso dell’imbrunire annunciavano che il giardino dei Tarocchi era stato davvero terminato.
Un tempo Niky de saint Phalle si era messa a sparare a dei sacchetti gonfi di vernici accortamente collocati sopra superfici ingombre di fiori di plastica, ruote di bicicletta, ombrelli, bacinelle, elmetti, asce, pistole o scarpe ricoperte da un bianco sudario di gesso. Sotto i colpi della sua carabina, arma impropria della pittura, il colore letteralmente esplodeva e la materia pittorica schizzava e colava sopra gli oggetti quotidiani annegati nel bersaglio.
Azioni armate come pittura, come arte.[1]
Dopo i Tiri, sull’onda del movimento femminista, Niki aveva dato vita alle Nanas[2], variopinte ragazze dalle forme volutamente esagerate. Realizzate in poliestere e resina, sicure di sé, provocanti, e felici, volteggiavano leggere sfidavando convenzioni e forza di gravità. Del 1966 era la “Hon”, la statua gigante di una donna incinta, stesa in terra e con le gambe piegate come per partorire. Passando dal sesso i visitatori potevano entrare all’interno di questa festosa dea della fertilità, dipinta in colori brillanti.[3]
Da qui a immaginare poi un intero parco di enormi sculture abitabili, in una Maremma di cinghiali e di cacciatori in Toscana, il passo è stato breve - se non obbligato. Allora, Niky aveva nuovamente imbracciato la vecchia carabina per realizzare il suo ultimo “tiro”: sparare su Parc Guell per imbrattare di mosaici a specchio, vetri e ceramiche colorate quei bigi giganti del suo giardino, risolvendo così, arma alla mano e in un sol colpo, l’incontro di Bomarzo e Barcellona [4].
Niky avveva impiegato oltre vent’anni a premere quel grilletto. Ma ora finalmente il giardino sembrava proprio finito e sepolto. Gli anni avevano versato tutto il loro grigio cemento sulle malinconiche armature di ferro che avevo visto un tempo.
"I tarocchi sono solo un gioco o indicano una filosofia di vita?"– si era chiesta Niky...
E Gianni ?...
Prima che la vita giocasse il suo proprio tiro mancino, il regista aveva infine avuto il tempo di terminare il documentario del suo proprio giardino?
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[1] I titoli di queste opere? “Dracula (Frammento di Dracula I e Dracula II)”, “Tiro dell’Ambasciata Americana”, “L’Altare degli Innocenti”, “Cuore”, “Marilyn”, tutte eseguite tra il 1961 e il 1964. Un groviglio inestricabile di bambole graziose fatte a pezzi, fili di lane, maglioni, reti metalliche e fiori finti. [2] “Le mie prime Nana erano in lana e stoffa. Pur non essendo molto grandi la maggior parte di loro era dotata di grande movimento nelle pose”; “Alcune correvano, altre erano a testa in giù, altre ancora sembravano incinte... Dicevano che fossero le madri del pattern painting. Io non sono d’accordo. La superficie da sola è noiosa. Le mie Nana sono una sintesi di forma e contenuto”. Insieme a Tinguely, divenuto suo marito, approfondirà questa idea di sintesi realizzando opere che oltre alla scultura coniugano elementi decorativi, pittorici e architettonici. [3] Moderna Museet di Stoccolma. [4] Tutto il procedimento era già contenuto in un autoritratto del 1958, eseguito con ciottoli di fiume, chicchi di caffè, frammenti di vasellame e specchi.
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